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Archivio di Stato di Genova

Giovannina Pappamoleo

Giovannina Pammoleo (sec. XIV)

 

Con termini inizialmente molto affettuosi, Giovannina scrive al suo «marito carissimo, degno di essere amato sopra tutte le cose di questo mondo», confermandogli il suo amore e il desiderio di rivederlo ma senza nascondere tutto il peso della sua assenza sulla vita della famiglia. Dopo avergli comunicato di essere in buona salute, come anche le figlie e tutti i congiunti, ed essersi rallegrata per le notizie sul ritorno della pace a Caffa, riferisce che non è stato possibile ottenere per lui la scribania di Gazaria, poiché solo due dei suoi presunti amici hanno appoggiato la sua candidatura. Giovannina teme che il marito decida di trattenersi in Crimea anche senza incarico, seguendo il consiglio di qualcuno che certamente non lo ama, e lo invita a ritornare, dal momento che anche in patria non gli mancheranno i guadagni. Con termini molto espliciti gli ricorda i sacrifici ai quali ha dovuto assoggettarsi come moglie di un uomo assente da due anni e lo prega di riportare in patria con sé il fratello di lei, Iacopo. Pensando al prossimo ritorno del marito, gli chiede di procurarle del panno di seta cremisi, approfittando dei prezzi più favorevoli, per rinnovare il suo guardaroba estivo, o di autorizzarla a vendere il mantello bezantaci, per il quale è già in trattativa con qualcuno. Con tono accorato gli rimprovera di non aver mai nemmeno nominato nelle sue lettere la figlia Nicoletta, che ne è molto sorpresa poiché si illude di essere amata dal padre più di quanto lui non faccia e riporta i suoi saluti in prima persona: «Sappiate, carissimo padre, che ho un grande desiderio di vedervi e che posso dire di non avervi mai visto, al punto che ogni uomo che non conosco e che mi viene incontro credo che sia mio padre». Nel concludere la lettera, gli trasmette i saluti di tutti i congiunti, lo prega di aver cura della sua salute, poiché ha sentito dire che tiene una mala via, e gli raccomanda di ricordarsi dell’infermità dalla quale lo ha guarito mastro Gregorio. Afferma di non dover aggiungere altro, certa che il marito abbia ben compreso.

 

Le pandette del Collegio dei notai di Genova non riportano l’esistenza di atti rogati dal notaio Giovanni Pammoleo di Levanto successivi al 1345, anno nel quale si può ipotizzare la sua partenza per la Crimea (ASGe, Collegio dei notai, Combustorum, c. 58v.). E’ possibile che il marito di Giovannina non sia mai tornato a Genova, forse vittima della peste nera, il terribile flagello che proprio da Caffa – dove si è sviluppato in occasione dell’assedio dei tartari – si diffonderà in Occidente seguendo le rotte delle navi genovesi.

 

ASGe, Notai ignoti, V, fasc. 63

 

1347

Lettera di Giovannina al marito, il notaio Giovanni Pammoleo, in Crimea da due anni.

 

In nomine Domini, amen. M°CCC°XXXXVII

Marito suo karissimo, amando super omnia huius mondi, Iohanni Pammoleo Iohannina Pammolea uxor vestra salutem et verum amorem cum magno gaudio et dexiderio vos videndi.

Primo vobis dico sum sana et salva cum meis filliabus et cum omnibus propinquis nostris et semper sum letta quando de vobis nova audio, item siatis sicut Tomainus Dotus venit in Ianua et aportavit novas sicut pax Caffe fatat erat de quo sum multa leta quia credo quod esstis letus.

Item vidit sicut continebatur in vestris literis sicut querebatis habendi scribanie Gazarie de quo eram contenta si vos possesetis ipsam habere quia audivi dici quod magna lucrar sunt nunc quod pax facta est et nichil curabam morandi in pena in isto allio anno venturo si habuisetis scribaniam et nunc sum serta quod ipsa puls non potesstis habere, de quod vobis aserto quod credebatis habere multos multos amicos et nullum habuisstis querentem vobis officium nisi isti dui, id est Guillielmus Pelliciia et Obertus Pellicia et certo credo quod isti fecerunt illut quod potuerunt pro habendo ipsam et non potuerunt ipsam habere.

Item vos rogo quod debeatis sperare quod hoc quod Deus facit sit pro melliori, unde ego vos rogo quod verssus istas partes venire debeatis, quia si veniebitis vobis non poterit manchare alliquod lucrum, unde vobis rogo quod verssus illas partes plus indurare non debeatis, quia quando audiam dicere quod vollebitis remanere sine officium timeo quod non derelinquam me et nunc poteres videre si aliquid de amore habebitis mecum ordenatum esse adeo sine pecato quod dilligerem sicut vos sicut dilligitis me quod haberem tam modica ... vestri sicut habetis de me, quia credo mihi trarem melliorem vitam quam non facio, et propter hoc credo bene perpendo quod credo nunquam fecis displicere neque unquam potuisstis immaginare quod credo fecerem quod vos non bene solvisti mihi in istis duobus anis sine bacullo.

Unde vos rogo quod verssus istas partes venire debeatis unde vobis polliceor quod ille qui vobis consullit quod debeatis remanere verssus illas partes vos non dilligit, item siatis quod unquam palcere non habebo quoussque vos non videbo verssus istas partes et vos rogo quod Iacobum fratrem nostrum non debeatis ipsum dimitere indurare et quando venietis ipsum vobiscum ducere debeatis quia magnum dexiderium habeo de videndo ipsum. /

Item vobis dico quod bene sitis quod non habeo mantellum neque ipitogium ab estate nisi illum bezantaci, unde vobis rogo quod aportare debeatis tot pannum de seta cremexi pro faciendo mantellum et epitogium si potesstis quia audivi dici quod ferum caratum est quia caratum est habere rogo vos quod si aportare debetis per lucrum aportare debeatis si potesstis se non paciatis mencionem quod vobis non dico unde propoxuit mihi vindendi mantellum bezancati cum vestro vollere quia si illum aportabitis istuc plus non feram. Item siatis quod vester avuncullus et vestra amica fecerunt vobis magnum velle pro Raffete propter hoc quod vobiscum ipsum semper non tenisti.

Item siatis quod Nic<oleta> fillia vestra multum vos sallutat milliens et modicum vos est tenuta quia unquam in vestris literis ipsa nominavisti de quo ipsa miratur quia ipsa credit quod amaretis plus quod non facitis, “siatis patre karissime quod magnum dexiderium vos vedi quia possum dicere quod unquam vos vidi et quillibet homo qui venit de novo credo quod si meus patre”.

Alliud vobis non scribo nisi quod omnes propinqui vestri milliens vos sallutant et magnum dexiderium habemus de videndo vos et vos rogo quod bene custodire debeatis personam vestram et vos custodire debeatis tenendi illam viam quam tenisti atenus, quia audivi dici quod tenisti mallam viam atenus, unde vos rogo quod debeatis recordare de infirmitate de qua magister Gregorius vos liberavi, alliut vobis non dico quia si estis sapiens vos bene intebigebitis me.

 

Traduzione

 

In nome del Signore, amen. 1347

 

Al suo carissimo marito Giovanni Pammoleo, degno di essere amato sopra tutte le cose di questo mondo, vostra moglie Giovannina Pammoleo porge i suoi saluti e vero amore con grande gaudio e desiderio di vedervi.

Per prima cosa vi dico che sono sana e salva con le mie figlie e con tutti i nostri congiunti e sono sempre lieta quando ricevo vostre notizie, così sappiate che Tomaino Doto è venuto a Genova e ha portato notizie che a Caffa era stata fatta la pace, cosa di cui sono molto lieta perché credo che anche voi ne siate lieto.

Poi ho visto che nella vostra lettera chiedevate di avere la scribania di Gazaria ed ero contenta se voi aveste potuto ricevere l’incarico, perché ho udito dire che era molto lucrativo ora che la pace è fatta, e non mi curavo di restare in pena per un altro anno se voi aveste avuto la scribania, ma ora sono certa che non la potete più avere, e vi informo che credevate di avere molti amici ma non avete avuto nessuno che chiedesse questo incarico per voi se non questi due, Guglielmo Pelliccia e Oberto Pelliccia, e certo credo che abbiano fatto tutto quello che potevano per farvela avere, ma non hanno potuto ottenerla.

Quindi vi prego di credere che ciò che Dio fa sia per il meglio, pertanto vi prego di ritornare qui, perché se verrete non vi potranno mancare i guadagni, quindi vi prego di non volervi trattenere laggiù, perché quando sento dire che volete rimanere senza incarico temo che mi vogliate lasciare, e ora dovete vedere se avete un po’ di amore per me e se questo debba proprio essere senza rapporti (sine pecato) ... perché credo che farei una vita migliore di quella che faccio ... perché voi non mi avete pagato bene in questi due anni di castità forzata (sine bacullo).

Quindi vi prego di venire qui, e vi assicuro che chi vi dice che dovete rimanere laggiù non vi ama, e sappiate che non avrò pace finché non vi vedrò da queste parti, e vi esorto a non trattenere più mio fratello e a portarlo con voi quando ritornerete, perché ho un grande desiderio di vederlo.

Vi dico poi che, come ben sapete, non possiedo un mantello o un epitogio estivo se non quello di bezantaci, per cui vi chiedo di portarmi, se potete, una certa quantità di panno di seta cremisi per farmi un mantello e un epitogio, poiché ho sentito dire che lo si può comprare a minor prezzo ...

Sappiate poi che vi manda mille saluti vostra figlia Nicoletta, che voi tenete in così poca considerazione da non nominarla mai nelle vostre lettere, cosa di cui lei si stupisce, perché pensa che voi la amiate più di quanto non fate: «Sappiate, carissimo padre, che ho un grande desiderio di vedervi e che posso dire di non avervi mai visto, al punto che ogni uomo che non conosco e che mi viene incontro credo che sia mio padre».

Non scrivo altro, se non che tutti i vostri congiunti vi mandano mille saluti e che abbiamo un gran desiderio di vedervi, e per parte mia vi esorto ad avere buona cura della vostra persona e di comportarvi ancora come avete già fatto, perché ho sentito dire che tenete di nuovo una brutta condotta (mala via), e quindi vi invito a ricordarvi dell’infermità di cui siete stato liberato da mastro Gregorio, e non dico altro, perché se siete intelligente mi avete ben compresa.

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Ultimo aggiornamento: 09/05/2025